Mendicanti di Spagna - Страница 22
— Lo hanno picchiato a morte con un tubo di piombo. Nessuno sa nemmeno come abbiano fatto a procurarsi un tubo di piombo. Lo hanno picchiato sulla nuca, poi lo hanno rivoltato e…
— Smettila! — intimò Leisha. La parola venne fuori in un gemito.
Richard la guardò. Nonostante le grida, la violenta presa sul suo braccio, Leisha ebbe la confusa impressione che quella fosse la prima volta in cui lui l’avesse realmente vista. Continuò a sfregarsi il braccio, guardandolo a occhi sbarrati, terrorizzata.
Lui disse pacatamente: — Sono venuto per portarti al Rifugio, Leisha. Dan Jenkins e Vernon Bulriss sono nell’auto qui davanti. Noi tre ti porteremo fuori a forza, se necessario. Ma tu verrai, vero? Lo capisci da sola, no? Non sei al sicuro, qui, con la tua importanza e il tuo fisico che dà nell’occhio. Sei un bersaglio naturale, semmai ne è esistito uno. Dobbiamo costringerti? O riesci finalmente a capire da sola che non abbiamo altra scelta? Quei bastardi non ci hanno lasciato altra scelta se non il Rifugio.
Leisha chiuse gli occhi. Tony, quattordicenne, in spiaggia. Tony, con occhi feroci e scintillanti, il primo ad allungare la mano verso il bicchiere di interleukin-1. Mendicanti in Spagna.
— Verrò.
Leisha non aveva mai conosciuto un tale furore. La terrorizzò, presentandosi a ondate durante tutta la lunga notte, ritirandosi e poi tornando sempre. Richard la tenne stretta fra le braccia; rimasero seduti tutti e due con le schiene appoggiate contro la parete della libreria, ma il fatto che lui l’abbracciasse non riuscì a fare alcuna differenza. In salotto, Dan e Vernon parlavano a voce bassa.
A volte, la rabbia esplodeva in grida, e Leisha udiva se stessa e pensava: "Non ti conosco". A volte, si trasformava in pianto, a volte, in racconti su Tony, su tutti loro. Né le grida né il pianto né il parlare riuscirono a sollevarla.
Il pianificare l’aiutò, un poco. Leisha parlò a Richard, con voce fredda e dura che non riconobbe, del viaggio per chiudere la casa di Chicago. Vi doveva andare per forza: Alice si trovava già lì. Se Richard, Dan e Vernon avessero messo Leisha sull’aereo e Alice la fosse andata a prendere al termine del volo con guardie del corpo del sindacato, non avrebbe corso eccessivi pericoli. Poi avrebbe potuto cambiare il biglietto di ritorno per Boston con uno per Conewango e recarsi con Richard al Rifugio.
— La gente sta già arrivando — le disse Richard. — Jennifer Sharifi sta organizzando tutto, oliando i rifornitori Dormienti con tanti di quei soldi che loro non riescono a resistere. Che ne farai di questo appartamento in città, Leisha? I mobili, il computer e i vestiti?
Leisha si guardò attorno nel familiare studio. Libri di legge rossi, verdi e marrone, allineati lungo le pareti sebbene la maggior parte delle informazioni che contenevano fosse presente anche nei computer. Una tazza di caffè era appoggiata su un foglio stampato posto sulla scrivania. Di fianco, si trovava la ricevuta che lei aveva richiesto al tassista quel pomeriggio, un frivolo souvenir del giorno in cui aveva superato gli esami di abilitazione: aveva pensato di farlo incorniciare. Sopra la scrivania c’era un ritratto olografico di Kenzo Yagai.
— Che marcisca pure tutto quanto — disse Leisha.
Il braccio di Richard le si strinse attorno.
— Non ti ho mai vista in questo stato — le disse Alice con voce sommessa. — C’è sotto qualcosa che va al di là del ripulire la casa, vero?
— Vediamo di andare avanti — rispose Leisha. Strappò via un abito dall’armadio del padre. — Vuoi qualcosa di questa roba per tuo marito?
— Non gli andrebbe bene.
— I cappelli?
— No — rispose Alice. — Leisha… che cos’hai?
— Vediamo di finire! — La ragazza tirò via con violenza tutti gli abiti dall’armadio di Camden, li accatastò sul pavimento, scribacchiò PER AGENZIA DI BENEFICENZA su un pezzetto di carta e lo fece cadere in cima alla pila. Silenziosamente, Alice iniziò ad aggiungervi capi di vestiario dal comò, sul quale era già stato attaccato un foglietto con la scritta ASTA PATRIMONIALE.
Le tende erano state già tirate via in tutta la casa: Alice lo aveva fatto il giorno precedente. Aveva anche arrotolato i tappeti. Il tramonto balenava di rosso sui nudi pavimenti in legno.
— Che vuoi fare della tua vecchia camera? — chiese Leisha. — Cosa vuoi prendere?
— Ho già etichettato tutto — disse Alice. — Giovedì verrà quello dei traslochi.
— Bene. C’è altro?
— La serra. Sanderson ha continuato ad annaffiare tutto, ma non sapeva esattamente quali piante ne avessero bisogno, e così parecchie di esse sono…
— Licenzia Sanderson — disse seccamente Leisha. — Le piante esotiche possono anche morire. Oppure falle mandare a un ospedale, se preferisci. Stai solo attenta a quelle che sono velenose. Avanti, occupiamoci dello studio.
Alice si sedette lentamente su un tappeto arrotolato al centro della camera da letto di Camden. Si era tagliata i capelli: Leisha pensò che il taglio fosse orribile, ciuffi scuri sfrangiati attorno al volto largo. La ragazza aveva anche acquistato altro peso. Stava cominciando ad assomigliare alla loro madre.
Alice chiese: — Ti ricordi della sera in cui ti ho detto che ero incinta? Appena prima che tu partissi per Harvard?
— Occupiamoci dello studio!
— Ti ricordi? — insistette Alice. — Per l’amor del cielo, per una volta tanto non puoi stare anche a sentire gli altri, Leisha? Devi assomigliare così tanto a Papà in ogni singolo minuto?
— Non sono Papà!
— Col cavolo che non lo sei. Sei esattamente come lui ti ha fatto. Ma non è questo il punto. Ti ricordi quella sera?
Leisha scavalcò il tappeto e uscì dalla porta. Alice rimase semplicemente seduta. Un minuto dopo Leisha rientrò. — Me lo ricordo.
— Eri quasi in lacrime — continuò implacabilmente Alice. La sua voce era calma. — Non ricordo nemmeno esattamente il perché. Forse perché, dopo tutto, non sarei andata al college. Ma ti ho abbracciata e per la prima volta da anni… anni, Leisha… ho sentito che eri veramente mia sorella. A dispetto di tutto: il vagare in giro tutta notte e le discussioni da esibizionista con Papà, la scuola speciale e le artificiali gambe lunghe e i capelli biondi. Tutte queste stronzate. Sembravi avere bisogno che io ti abbracciassi. Sembravi avere bisogno di me. Sembravi avere bisogno.
— Che vorresti dire? — chiese Leisha. — Che puoi sentirti davvero vicina alla gente solo se questa è nei guai e ha bisogno di te? Che puoi essere una sorella per me solo se ho qualche tipo di dolore, se soffro per qualche ferita aperta? È questo il legame che esiste fra voi Dormienti? "Proteggimi mentre sono in stato di incoscienza, sono menomato esattamente come te"?
— No — disse Alice. — Io sto dicendo che tu sai essere una sorella solo se stai soffrendo.
Leisha la fissò sbigottita. — Sei una stupida, Alice.
Alice rispose tranquillamente: — Lo so. Al tuo confronto lo sono. Lo so.
Leisha scosse violentemente la testa. Si vergognava di quello che aveva appena detto, eppure era la verità, sapevano tutt’e due, che era la verità e tuttavia la rabbia le regnava ancora dentro come un oscuro vuoto, informe e bruciante. Il peggio era costituito dalla parte informe. Senza una struttura non poteva esistere azione; senza azione, la rabbia continuava a bruciarle dentro, soffocandola.
Alice continuò: — Quando avevo dodici anni Susan mi regalò un abito per il nostro compleanno. Tu eri via da qualche parte per una di quelle gite di studio di due giorni che la tua scuola di lusso organizzava costantemente. L’abito era di seta, azzurro tenue con pizzo antico. Molto bello. Io ero emozionatissima non soltanto perché era bellissimo ma anche perché Susan lo aveva comperato per me, mentre per te aveva preso del software. Il vestito era mio. Era, pensai io, me. - Nell’oscurità che si stava addensando Leisha era a mala pena in grado di distinguere le fattezze tarchiate e insignificanti di lei. — La prima volta che l’ho indossato un ragazzo mi ha detto: "Hai rubato il vestito a tua sorella, Alice? L’hai fregato mentre lei stava dormendo?" Poi si è messo a ridere come un matto, nel modo in cui facevano sempre.