Il Maestro e Margherita - Страница 8
— Egemone…
— Silenzio! — gridò Pilato, e con uno sguardo furioso seguí la rondine che era di nuovo volata sulla loggia. — Venite! — esclamò Pilato.
Quando il segretario e la scorta furono tornati ai propri posti, Pilato dichiarò che confermava la condanna a morte pronunciata nell’assemblea del piccolo Sinedrio contro il criminale Jeshua Hanozri, e il segretario scrisse quello che aveva detto il procuratore.
Un attimo dopo, Marco l’Ammazzatopi stava davanti a Pilato. Questi gli ordinò di consegnare il condannato al capo del servizio segreto, riferendogli nel contempo l’ordine del procuratore di separare Jeshua Hanozri dagli altri condannati, e di vietare, pena severe punizioni, che gli agenti del servizio segreto parlassero con Jeshua di qualsiasi argomento o rispondessero a qualsiasi sua domanda.
A un segno di Marco, la scorta circondò Jeshua e lo condusse via dalla loggia.
Poi comparve davanti al procuratore un bell’uomo dalla barba bionda, con penne d’aquila sul cimiero, lucenti teste leonine d’oro sul pettorale, piastre, pure d’oro, sulla cintura alla quale era appesa la spada, calzari dalla triplice suola allacciati sotto le ginocchia, e un mantello purpureo buttato su una spalla. Era il legato che comandava la legione.
Il procuratore gli chiese dove si trovasse in quel momento la coorte di Sebaste. Il legato comunicò che i Sebastesi circondavano la piazza davanti all’ippodromo, dove sarebbe stato comunicato al popolo il verdetto riguardante gli accusati.
Il procuratore ordinò allora al legato di distaccare due centurie della coorte romana. Una, al comando dell’Ammazzatopi, avrebbe dovuto scortare i prigionieri, i carri con gli strumenti del supplizio, e i boia, verso il Calvario, e circondarne la sommità non appena giunti sul posto.
L’altra invece doveva recarsi immediatamente al Calvario e presidiarlo. Per lo stesso scopo, cioè per bloccare il monte, il procuratore chiese al legato di inviare un reggimento ausiliare di cavalleria, e precisamente la coorte alaria siriana.
Quando il legato lasciò la loggia, il procuratore ordinò al segretario di invitare nel suo palazzo il presidente del Sinedrio, due suoi membri, e il capo delle guardie del tempio di Jerushalajim, ma aggiunse che pregava di organizzare la cosa in modo da poter parlare a quattr’occhi con il presidente prima di conferire con tutta quella gente.
L’ordine del procuratore fu eseguito con rapidità ed esattezza, e il sole, che in quei giorni bruciava Jerushalajim con una furia particolare, non aveva ancora fatto in tempo a raggiungere lo zenit, quando sulla terrazza superiore del giardino, presso i due leoni di marmo bianco che stavano a guardia della scalinata, s’incontrarono il procuratore e il facente funzioni di presidente del Sinedrio, il gran sacerdote Joseph Caifa.
Il giardino era silenzioso. Il procuratore uscí dal porticato sulla terrazza superiore del giardino inondato di sole pieno di palme svettanti sulle mostruose zampe elefantesche, davanti ai suoi occhi si distese tutta l’odiata Jerushalajim coi ponti sospesi, le fortezze e, soprattutto, l’indescrivibile blocco di marmo rivestito di squame di drago dorate in luogo del tetto: il tempio di Jerushalajim. Col suo udito acuto il procuratore afferrò lontano, in basso, là dove un muro di pietra separava le terrazze inferiori del giardino dalla piazza cittadina, un brontolio sommesso, sopra il quale si alzavano a volte suoni deboli e sottili che parevano gemiti o grida.
Il procuratore capí che laggiú sulla piazza, era già affluita una folla innumerevole di abitanti di Jerushalajim agitati per i recenti disordini, che quella folla attendeva con impazienza il verdetto, e che in mezzo alla calca gridavano gli irrequieti venditori d’acqua.
Il procuratore cominciò con l’invitare il gran sacerdote sulla loggia per proteggersi dalla calura spietata, ma Caifa si scusò con cortesia e spiegò che non poteva farlo. Pilato si gettò il cappuccio sulla testa che cominciava a diventare calva, e iniziò la conversazione. Questa aveva luogo in greco.
Pilato disse che aveva esaminato la pratica di Jeshua Hanozri, e che aveva confermato la condanna a morte.
Quindi le condanne a morte che dovevano essere eseguite quella mattina erano state pronunciate contro i tre ladroni Disma, Hesta e Bar-Raban, e inoltre quel Jeshua Hanozri. I primi due, che incitavano il popolo a rivoltarsi contro Cesare, essendo stati presi con le armi dalle autorità romane, rientravano nella sfera di competenza del procuratore, e quindi non se ne sarebbe parlato. Gli altri, cioè Bar-Raban e Hanozri, erano stati arrestati dalle autorità locali e giudicati dal Sinedrio. Secondo la legge e la consuetudine, si sarebbe dovuto rilasciare uno dei due prigionieri in onore della grande festa della Pasqua che stava per iniziare. Pertanto il procuratore desiderava sapere quale dei due criminali il Sinedrio intendeva liberare: Bar-Raban oppure Hanozri?
Caifa chinò la testa per significare che la questione era chiara, e rispose:
— Il Sinedrio prega di liberare Bar-Raban.
Il procuratore sapeva bene che il gran sacerdote gli avrebbe dato proprio quella risposta, ma il suo compito era di mostrare che essa lo sorprendeva.
Pilato lo fece con molta arte. Le sopracciglia si alzarono nel volto altezzoso, il procuratore fissò il gran sacerdote dritto negli occhi con espressione stupita.
— Confesso che questa risposta mi sorprende, — disse con dolcezza il procuratore, — temo che vi sia un equivoco.
Pilato si spiegò. Le autorità romane non intendevano affatto attentare ai diritti del potere spirituale locale, questo il gran sacerdote lo sapeva benissimo, ma nel caso presente c’era evidentemente un errore. E le autorità romane erano naturalmente interessate a correggere l’errore.
Infatti: la gravità dei crimini di Bar-Raban e di Hanozri non poteva neppure essere messa a confronto. Se il secondo, chiaramente pazzo, era colpevole di aver tenuto discorsi insensati a Jerushalajim e in altre località, turbando le popolazioni, le colpe a carico del primo erano molto piú gravi. Non solo aveva osato incitare apertamente alla rivolta, ma al momento del suo arresto aveva anche ucciso una guardia. Bar-Raban era certamente piú pericoloso di Hanozri.
Considerato tutto questo, il procuratore pregava il gran sacerdote di ritornare sulla sua decisione, e di rimettere in libertà il meno pericoloso dei due condannati, cioè, senza alcun dubbio, Hanozri. Dunque…
Caifa fissò dritto negli occhi Pilato e disse con voce sommessa ma decisa che il Sinedrio aveva esaminato la questione con la massima attenzione, e che ribadiva la sua intenzione di liberare Bar-Raban.
— Come? Anche dopo il mio intervento? L’intervento di colui che parla a nome delle autorità romane? Gran sacerdote, ripetilo per la terza volta.
— E per la terza volta noi rendiamo noto che liberiamo Bar-Raban, — disse piano Caifa.
Tutto era finito, e non rimaneva piú nulla da dire. Hanozri se ne andava per sempre, e non c’era piú nessuno che potesse guarire il procuratore dai suoi dolori tremendi, contro i quali non esistevano mezzi all’infuori della morte. Ma ora Pilato fu colpito da un altro pensiero. La stessa incomprensibile angoscia che si era già impadronita di lui sul balcone, penetrava tutto il suo essere. Tentò subito di capirne il motivo, ma la spiegazione era strana: al procuratore sembrò vagamente di non aver detto tutto il necessario al condannato, o forse di non averlo ascoltato fino in fondo.
Pilato scacciò questo pensiero, ed esso svaní in un istante, cosí com’era venuto. Sparí, e l’angoscia restò inspiegata, poiché non riuscí a spiegarla un altro breve pensiero, balenato e spentosi come un lampo: «L’immortalità… è arrivata l’immortalità…» Era arrivata l’immortalità per chi? Questo il procuratore non lo capí, ma il pensiero di questa misteriosa immortalità gli fece gelare il sangue sotto la canicola.